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Riflessioni intorno al ruolo dei centri che ospitano persone con disabilità (parte II)

Aggiornamento: 27 giu 2024


  • Di cosa abbiamo bisogno

La cultura della disabilità è cresciuta, cresce e si svilupperà col tempo ed attraverso azioni e sperimentazioni. Oggi, grazie alla strada tracciata da molti, uno dei punti cardine di questa cultura è la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con Disabilità”. Da questa derivano leggi e regolamenti che sanciscono in modo sacrosanto diritti fondamentali delle persone con disabilità come autodeterminazione ed inclusione. Fra queste anche il DL 25/22 dir Reg.Lombardia

Il tema dei diritti fondamentali delle persone però è un tema che per sua natura NON PUO’ RIGUARDARE UNA CATEGORIA SPECIFICA. Non si può parlare di inclusione o autodeterminazione delle persone con disabilità dimenticandoci di tutto il resto dell’umanità che, per mille motivi e con mille sfumature si trova in condizioni difficili. Serve un elenco?? Anziani, stranieri, minoranze di ogni genere e colore, tutto il mondo della psichiatria e delle dipendenze varie, giovani che si ritirano davanti al computer, insomma tutti quelli che “non ce la fanno” (e sono tanti e sempre di più leggendo le statistiche…). Consideriamo per questo sia più efficace lavorare alla costruzione di una SOCIETA’ INCLUSIVA. Sembra utopico ma, forse, più realizzabile delle dichiarazioni in cui si danno diritti infiniti di autodeterminazione, libertà ed inclusione che devono poi necessariamente essere sorretti da risorse… che non ci sono.

Citiamo qui un passaggio di un’intervista interessante proprio riguardo a questo argomento:

Si tratta di allestire le condizioni perché le comunità locali siano più coese, dunque maggiormente in grado di produrre sostegno reciproco tra persone e famiglie. Bisogna, quindi, lavorare con le scuole facendo fare ai giovani e ai bambini (fin dalle scuole materne) esperienze di intervento nella società, conoscenza dei problemi, costruzione di azioni che inducano fiducia verso il mondo e verso il futuro, affinché si diffonda una cultura di maggiore apertura verso gli altri, allestendo occasioni di convivialità (faticose perché le persone sono prevalentemente davanti a un device tutto il giorno) per ricostruire condizioni di fiducia reciproca. Senza un contesto coeso nessun provvedimento monetario o giuridico può modificare granché.

Tratto da: “5 domande a…Gino Mazzoli” – di Arianna Simone.  www. Comunitadiconnessioni.org

Se quelle espresse fino a qui le consideriamo “buone idee” è necessario dotarsi di una “attrezzatura” che permetta di trasformarle in azioni in modo più agevole possibile.




Ecco qualche idea:

Gli operatori:

Occorre innanzitutto modificare la prospettiva di chi opera nei centri: in primis gli educatori. Dovremo avere una attenzione doppia: quella legata al PEI di ciascuna persona con disabilità, quella legata alla comunità ed al suo benessere con la capacità di tenere insieme i due registri. La parola d’ordine deve essere elasticità, negli orari, nelle relazioni con ambienti e persone che non parlano la lingua della pedagogia e del Sociale, con realtà il cui interesse primario non è solo quello educativo ma anche l’aspetto “profit”. Su questo sarà necessario creare dei modelli e inventare percorsi di formazione.

Le strutture:

stiamo parlano di realtà molto diverse fra loro. Il nostro Centro nella sua storia si è spostato in tre strutture differenti situate in zone diverse della città: un ex asilo infantile ed un capannone industriale riadattato entrambi in periferia ed oggi in una palazzina ristrutturata che ospitava un bar e la sede di una cooperativa negli anni del secondo dopoguerra. Tutti gli spazi erano “a norma” per grandezza ed attrezzature minime. Lo sforzo che può essere fatto è quello di liberarci da alcuni vincoli che limitano lo scambio col territorio. Perché per esempio non immaginare che parte dello spazio del Centro potrebbe avere funzioni di bar, di biblioteca o sala culturale dove possono avvenire scambi ed incontri con persone del territorio? Se lo spazio è esclusivo del CSE finisce per essere anche frequentato solo dalle persone del CSE….

Facilitare la presenza di persone esterne

Oggi le persone presenti al CSE possono essere utenti, operatori o volontari. Al massimo può esserci qualcuno che faccia manutenzione alla struttura. Per ognuno di loro c’è un modello di registrazione, un elenco, un modello assicurativo, un bel po’ di carta e tempo da spendere per questa gestione.

In teoria chiunque altro stia nel CSE con altro titolo è “fuorilegge” per qualche motivo, per l’assicurazione, per l’ INAIL, per l’ATS ecc… Vincoli come questo, pur comprendendone l’origine per esempio legata alla sicurezza, limitano la progettualità e lo scambio di esperienze e relazioni oppure le rendono clandestine invece che essere divulgate e rese più evidenti.

La relazione numerica operatori-utenti.

Oggi questa relazione, in caso di verifica dell’ATS, viene fatta come se fosse una fotografia. Cioè preso un momento x di apertura del Centro si contano gli utenti e gli operatori presenti. Il rapporto deve essere 1:5.

Se vogliamo moltiplicare le occasioni di esperienza per le persone con disabilità va anche considerata una maggior possibilità di rischio. Rischio di essere “meno curati”, meno protetti dalla presenza degli operatori ma anche più liberi di vivere relazioni “alla pari” e quindi meno attente a misurare parole ed azioni. Dovrebbe essere possibile sia affidare una persona con disabilità del CSE a volontari o a gruppi esterni al Centro per qualsiasi genere di attività ludica o sportiva o di lavoro così come sarebbe bello attivare esperienze “fuori orario” alla presenza di operatori che poi però devono poter recuperare le ore lavorate anche durante l’orario di apertura del CSE.

-possibilità di sperimentare progetti ed esperienze “crossover”

Molte delle persone con disabilità che frequentano il nostro CSE difficilmente possono essere inserite in una realtà lavorativa o non per tempi molto lunghi. Per loro possono essere più adatti dei percorsi “sperimentali” che li portino a fare esperienze brevi magari in luoghi di lavoro, o di impegno sociale ma con una tempistica ed una organizzazione molto più elastiche di un tirocinio formale. Esperienze che devono essere inscritte nel tempo del Centro dal quale possono partire e ritornare come base sicura. Facilitare queste esperienze senza caricarle di gestione burocratica troppo “pesante” può essere una buona scelta.

Tutti questi sono solo esempi di “elasticizzazione” e facilitazione dell’intervento dei Centri. Probabilmente ci sono altre possibilità ed altre vie che si possono percorrere e per queste sarà importante moltiplicare esperienze e riflessioni su di esse al fine di aumentare ancor di più la possibilità di impatto di luoghi come un CSE sul territorio di cui fa parte.

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