Riflessioni intorno al ruolo dei centri che ospitano persone con disabilità (parte I)
Aggiornamento: 27 giu 2024
RIFLESSIONI INTORNO AL RUOLO DEI CENTRI CHE OSPITANO PERSONE CON DISABILITÀ (prima parte)
La nostra storia è probabilmente molto simile a quella di altre realtà del terzo settore. Comincia negli anni ottanta con un gruppo di amici dell’Oratorio che incontrano persone con disabilità e le loro famiglie. Nascono in quegli anni dei percorsi di volontariato prima spontaneo poi sempre più formalizzato in associazioni. Nel nostro caso l’Associazione Volontariato Arcore nasce nel 1984, giusto 40 anni fa.
Quasi in modo naturale si passò poi a creare dei percorsi professionali che si occupassero delle persone con disabilità in modo più incisivo e quotidiano. Nel 1988 nasce la cooperativa La Piramide che si occupava e si occupa di inserimento lavorativo. Era un laboratorio di assemblaggio meccanico che ospitava persone con disabilità affiancate da operatori e volontari che le supportavano. I volontari, davvero numerosi e presenti anche nelle serate, rappresentavano contemporaneamente un sostegno alla produttività della cooperativa ma anche un ponte col territorio.
Al principio quindi c’era il lavoro come forma di inclusione sociale.
Ci sono voluti parecchi anni per comprendere che il nostro operare quotidiano doveva ampliare il proprio sguardo pensando che il lavoro con le capacità e competenze di cui esso necessita, non poteva essere il solo strumento attraverso il quale le persone con disabilità potessero essere a pieno titolo incluse nella società. Così nel 1993 nasce la cooperativa Piramide Servizi che parte, appunto da un Centro diurno che diventerà poi CSE. Nonostante questo però, ancora per gli anni a venire il lavoro del Centro sarà quello di “implementare competenze”, di autonomia, culturali, sociali. In qualche modo il presupposto era che le persone con disabilità fossero caratterizzate dalla “mancanza” di qualcosa, e che questo qualcosa, attraverso un allenamento potesse essere in qualche modo recuperato.
Cosa abbiamo capito – esperienze pratiche
Cerchiamo qui di mettere “in fila” i passaggi fatti per raggiungere il modo di essere Centro e di intendere la “disabilità” che ci contraddistingue oggi. E’ necessario però avvertire tutti del fatto che ogni sintesi come questa ha alcuni grossi difetti:
non rende bene l’idea del tempo necessario per fare in modo che i passaggi diventino evidenti e possano essere nominati in modo chiaro. Gran parte delle nostre esperienze sono capitate quasi per caso e solo dopo si sono trasformate in idee. Ci vuole il famoso “senno di poi” che arriva un po’ coi suoi tempi…;
Anche oggi, dopo tanto tempo, la quotidianità del nostro Centro non è così netta. Molte attività non si possono dire “inclusive” ed a volte rispondono a logiche differenti se pure valide;
Nelle occasioni collettive come quando scriviamo documenti o presentiamo il nostro lavoro in momenti pubblici, piace a tutti sfoggiare “i gioielli di famiglia” in termini di esperienze ed esempi di progetti riusciti. In realtà molte sono le persone con disabilità che non rientrano in percorsi di inclusione per mille motivi, a volte per scelta, a volte perché si potrebbe fare di più e meglio da parte di tutti, anche e soprattutto nostra. Siamo Centro anche per loro però, questo non va dimenticato.
Obiettivo felicità: il PEI, che continuiamo a formulare di anno in anno è concepito per individuare obiettivi di crescita personale relativi ad ogni persona con disabilità inserita nel Centro. Si definiscono con essi i relativi strumenti per raggiungerli. Si tenta di renderli espliciti in modo “oggettivo” quindi ci si sforza di contare e quantificare. Ciò è relativamente semplice per obiettivi pratici. Da anni però durante i momenti di programmazione dell’équipe ci si pone fondamentalmente una domanda: “cosa può fare il CSE La Vite per far stare bene la persona in questione?”. Ovviamente le risposte sono complesse, ipotetiche, multidisciplinari, di lungo periodo e difficili da quantificare… un po’ come misurare la felicità appunto. Con questo non vogliamo ovviamente sminuire l’importanza della formulazione dei PEI ma a volte quello che fa “stare bene” le persone è ciò che si mette in moto intorno a loro in termini di cura ed attenzione. Ecco è da un po’ che crediamo più a questa strada che non a quella dell’incremento di competenze.
Siamo persone che hanno delle cose da dire e fare utili per tutti: questo passaggio è importante. Le persone con disabilità, soprattutto intellettiva, sono considerate spesso “disabili a tutto tondo” e come tali trattate. L’idea è che non riescano a fare nulla senza il supporto di altri. E’ stato ed è necessario lavorare per superare questa convinzione attraverso esperienze visibili sul territorio e riconosciute. Tanto per fare un esempio, da alcuni anni ormai un piccolo gruppo di persone del CSE, con un educatore, ha intrapreso un percorso di formazione sul tema del riciclaggio dei rifiuti e delle scelte ecologiche. Lo stesso gruppo ha poi preparato delle “lezioni” che si tengono presso le scuole di Arcore e di alcuni paesi vicini arrivando fino a ragazzi di prima media. Questo cambia l’immagine della disabilità. Le persone disabili sono chiamate in causa perché hanno una conoscenza dell’argomento “riciclo” più alta di quella dei professori e la mettono a disposizione. Ciò motiva la loro presenza a scuola in quella mattina e non la loro simpatia.
Pensare a soluzioni che costruiscano una società inclusiva: abbiamo affrontato e affrontiamo ancora oggi uno dei temi che scottano per le persone con disabilità e per i loro cari. Lo chiamano il “dopo di noi” ma non è che questo nome ci piaccia. Se esiste un “dopo” vuol dire che fino ad un certo punto tutto è chiaro e definito: i disabili se ne stanno in famiglia “fino a che morte non ci separi”. Un “pacchetto all inclusive” dove affetto, cura, progettazione di vita, tempo libero e mille altre cose sono tutte a cura del nucleo familiare.
Abbiamo avuto, alcuni anni fa in comodato d’uso una casa meravigliosa e grandissima nel centro di Arcore. Abbiamo pensato che il tema della vita indipendente dei giovani e della loro uscita dalla famiglia è un tema complicato per tutti. Così abbiamo creato un progetto di casa dove parte degli spazi è dedicato alle persone con disabilità che si sperimentano, con modalità molto elastiche, lontano dalla famiglia. Chi si ferma solo una sera, chi solo per cena, chi prova per una settimana, chi da quest’anno vive costantemente lì supportato da figure e ducative. L’altra parte della casa però è abbastanza spaziosa per ospitare 3 o 4 giovani che desiderano rendersi indipendenti dalla famiglia e che quindi invece di affittare un appartamento per conto loro, preferiscono una situazione di co-housing dove possano sperimentare contemporaneamente indipendenza vista la possibilità di avere per ciascuno spazi personali ma anche legami e relazioni. Il risultato si chiama “Abitare la Comunità” ed è ben altro e ben oltre il “Dopo di noi”. Si tratta di vite che si incrociano, si contaminano, condividono tempo, pranzi gioie e dolori e crescono, soprattutto crescono.
Chi include chi?? A questo punto la domanda non ha nessun senso!!
Centro Sociale ed Educativo: Il valore sociale della disabilità. Gli effetti di queste idee sull’organizzazione ed il lavoro del CSE “la Vite” si sono moltiplicati nel tempo, complice anche lo spostamento del CSE dalla periferia di Arcore ad una via più centrale, facilmente accessibile per tutti, molto frequentata e con una struttura architettonica multifunzionale. Sono così successe tre cose:
la prima riguarda le varie attività svolte: ci siamo resi conto che gran parte di esse può avere uno sguardo rivolto all’esterno che va incentivato e curato. Ognuna di esse può essere svolta in strutture pubbliche o private, può coinvolgere amici, volontari, negozianti del quartiere, autorità cittadine e famiglie, parrocchie e scuole.
La seconda è relativa allo sguardo degli operatori: col tempo abbiamo cominciato ad assumere un ruolo di “stimolatori di socialità” magari all’inizio involontariamente poi sempre più in modo consapevole. Abbiamo cominciato a pensare ai nostri locali e alle nostre risorse personali e di gruppo come ad un patrimonio da mettere a disposizione del territorio, dei giovani e di gruppi vari che hanno creato con noi un rapporto che non è di “affittuari dei locali” ma di frequentatori del Centro. Alcuni sono nuovi amici, alcuni sono divenuti volontari, tutti conoscono “quelli della Vite” e si creano occasioni di scambio e relazione che si moltiplicano giorno dopo giorno.
La terza riguarda il fatto che il CSE è diventato punto di riferimento per molte persone che in qualche modo “chiedono asilo” qui, magari sotto forma di volontari, magari solo per un pò. In questo senso aprire le porte del CSE è stato anche aprire le porte a nuove richieste di relazione, di attenzione e di sostegno. Ciò è dovuto al clima che si respira, alla necessità quotidiana di non giudicare, di non fare graduatorie di merito, di accogliere le difficoltà di ciascuno ma soprattutto di esaltare le qualità di tutti. Incontriamo spesso giovani con percorsi scolastici complicati, persone adulte che affrontano fatiche che la vita frenetica e l’individualismo rendono insopportabili. Per tutti c’è un po’ di spazio.
Tutto questo ci fa assomigliare più ad un Centro Sociale che ad un luogo che ospita persone con disabilità: giusta osservazione. Ma è proprio attraverso questa apertura che molti intuiscono che la presenza di persone con qualche tipo di limite nel cuore del proprio territorio ha un valore fondamentale perché sottolinea come ciascuna forma di vita può dare, quando accolta e sostenuta, un fondamentale contributo al benessere di tutti e, al contrario, più alta è la selezione dei capaci, degli abili, degli “inclusi” e più forte è il malessere collettivo.
(Fine prima parte)